hamer-cerimonia-092Ci rechiamo nel villaggio Hamer di Turmi alle 7,30 del mattino: in giornata si effettuerà la cerimonia del salto dei tori (pratica in uso anche presso le etnie Banna e Bashada), un rito di iniziazione lungo e complesso. I preparativi sono già a buon punto: nei pressi delle loro capanne di fango e paglia le donne si sistemano reciprocamente l’acconciatura dei capelli intrecciando sottili treccine (dal nome “goscha”) che spalmano con burro, resina, polvere di ferro e argilla rossa. Spesso, soprattutto le più anziane, ornano i capelli con piume di uccelli rapaci (“sillè”) o con fiori dai colori accesi (“puma”).

Veniamo invitati da una bellissima donna Hamer, di nome Toro, a visitare la sua capanna. Entriamo da una piccola feritoia rialzata (per evitare l’ingresso agli animali sgraditi) accovacciandoci: all’interno non vi sono finestre e sul fuoco acceso stanno cucinando un mezzo capretto da un lato e scaldando il caffè dall’altro.

Ci sediamo per terra su una pelle di bue. Sul tetto vi è un ripiano in legno sul quale vengono conservati il sorgo e gli altri cereali che coltivano e che sono alla base della loro dieta. Ci offrono il caffè, da bere in comune dentro una ciotola ricavata da una zucca tagliata a metà. Poi ci passano un’altra ciotola con del miele da loro raccolto, molto buono. Nella capanna, oltre a Toro e noi, ci sono i tre figli della donna e una sua dirimpettaia con altri due figli. Andrea, la nostra bravissima guida, siede con noi e ci fa da interprete, spiegandoci i loro usi e costumi. Scattiamo diverse fotografie e, ringraziando per la gentile ospitalità Toro, ci congediamo per riprendere il giro nel villaggio.

In uno spiazzo libero dai recinti degli animali e dalle capanne, alcune donne iniziano a muoversi in circolo, una dietro l’altra, suonando con un flauto e alcune trombette in metallo. Alle gambe portano dei campanelli in metallo (di nome “warawara”) che si stringono ai polpacci con alcune cinghiette in pelle di capra, emettendo piacevoli suoni ad ogni passo. In tal modo richiamano l’attenzione di tutti i componenti del villaggio ed anche dei villaggi circostanti, per gli imminenti festeggiamenti.

All’interno di un recinto un uomo anziano, insieme ad un bambino completamente nudo, mungono con sapienza le vacche riempiendo le zucche che sono state donate al ragazzo, di nome Ukuli, che oggi affronterà la prova del salto dei tori.

Nei giorni che hanno preceduto la cerimonia, il giovane Hamer aveva inviato a tutti coloro che avrebbero partecipato alla festa un filo d’erba secca annodato con un numero di nodi corrispondenti ai giorni che mancavano alla prova. Ogni invitato avrebbe sciolto i nodi sino al giorno della celebrazione.

Da un altro lato del villaggio altre donne stanno tostando i chicchi di caffè su un’anfora rotta posta sul fuoco, mentre dentro un enorme fusto di metallo sta bollendo l’acqua, a cui avrebbero aggiunto la farina di sorgo ed altri cereali (grano, orzo, frumento e luppolo) per realizzare il “bordé”, una birra artigianale che bevono soprattutto durante i festeggiamenti.

Molti, sia uomini che donne, non hanno gli incisivi inferiori: intorno ai 15 anni la “cagica bulé”, una specie di dentista del villaggio, pratica l’estrazione oltre che per fini estetici, anche per evitare le complicanze del tetano.

L’abbigliamento delle donne  è composto da tre diversi indumenti in pelle: il “kasci” (la parte anteriore sfilabile dal collo che lascia scoperta la schiena), il “schikiniè” (la parte frontale della gonna) e il “pallanti” (la parte posteriore della gonna). Sono tutti impreziositi dalle piccole conchiglie cipree, chiamate “chibò”. Sulle loro braccia e sulle caviglie sfoggiano con orgoglio grossi bracciali in ottone o nichel di nome “gau”.

Gli uomini utilizzano un gonnellino colorato in tessuto che si stringono in vita mediante il “kalascì” (la cartuccera), a volte sormontato da una casacca. Tutti fanno bella mostra di numerosi bracciali ed orecchini, oltre a scarificazioni sul corpo denominate “sada pala”, che possono consistere in semplici segni decorativi o simboli distintivi del loro valore e coraggio.

Le cicatrici, per gli Hamer (come per gran parte delle popolazioni della Bassa Valle dell’Omo), sono motivo di orgoglio e testimoniano fedeltà, forza, coraggio, valore; spesso sono i segni di un’avvenuta iniziazione.

Le scarificazioni presenti sul ventre e sulle braccia delle donne prendono il nome di “pala” e sono semplici decorazioni a fini estetici. Le cicatrici che invece hanno sulla schiena, e di cui vanno molto fiere, si chiamano “madà”: sono i segni tangibili della devozione e dell’affetto verso il ragazzo che dovrà passare dall’adolescenza all’età adulta attraverso il superamento della prova “uklì bulà”, il salto dei tori.

Le danze delle donne continuano sino al momento del pranzo: sotto un grande albero si siedono in circolo passandosi a turno la zucca colma del “bordè” (la birra) e mangiando con le mani da una ciotola comune il “ghenfò” (farina di sorgo impastata con il burro e scottata appena sul fuoco).

Dopo questo frugale pasto gli uomini si allontanano per disporsi in uno spiazzo dove, seduti sui loro sgabelli in legno (di nome “borkota”), si disegnano il corpo con argilla bianca, sistemandosi piume di struzzo nei capelli unti in precedenza con burro ed argilla.

Intanto Ukuli, accovacciato a terra insieme al suo migliore amico, prepara una zucca, avvolgendola con fettucce vegetali, contenente l’acqua sacra. Posta la zucca sulla spalla si dirige, circondato dai Maz (i giovani che saranno i suoi padrini nella cerimonia, avendo già superato la prova, e divenuti pertanto uomini a tutti gli effetti) e seguito da tutti gli altri componenti del villaggio, verso il luogo sacro, vicino alle sponde in secca del fiume Keské. Qui avrà inizio la vera e propria cerimonia che si aprirà con il rito della fustigazione, invocata a gran voce dalle parenti di Ukuli.

I Maz si distribuiscono alcune fascine, tagliate da un albero particolare che non dovrebbe causare infezioni alle ferite, preparandosi tra suoni di trombe, danze, polvere e sudore. Si avverte, palpabile, un fermento e una eccitazione nell’aria, mentre i Maz si dispongono ad una certa distanza l’uno dall’altro.

Le donne vicine alla famiglia del candidato si fanno spalmare dalle più anziane del burro sulla schiena, sulle spalle e sulle braccia: servirà ad attutire i colpi delle verghe sulla loro pelle.

Tra un frastuono di suoni, voci, battiti di mani, incitamenti ed un sole rovente, le donne (ma alcune sono solo bambine) chiedono con insistenza di essere frustate, mentre ballano e saltano di fronte ai Maz, tenendo alzato il braccio destro. E se loro non fossero disposti a farlo, li strattonano, li inseguono, li scherniscono per convirceli a frustarle.

La schiena, le spalle, le braccia e talvolta anche il seno, mostrano profonde ferite sanguinanti che si trasformeranno in cicatrici perenni: saranno considerate un segno di devozione e di attaccamento al loro parente, il “naala” (cioè il giovane) che, superata la prova, diventerà “daala” (adulto) e potrà fidanzarsi e sposarsi. Inoltre, con queste cicatrici, le donne vanteranno un “credito” nei confronti del futuro Maz: lui dovrà badare alle loro necessità in caso di difficoltà, dovrà difenderle in caso di pericolo, dovrà proteggerle, sempre.

Agli occhi di noi occidentali questo rito della fustigazione può apparire arcaico, cruento, senza alcun fondamento logico: ma occorre riflettere sul fatto che il nostro modo di pensare e di vivere è lontanissimo dalla loro cultura e dalle loro tradizioni. Al contrario, secondo me, dovremmo accettare di buon grado l’importanza ed il profondo significato che rivestono queste pratiche nella loro esistenza, evitando di esprimere giudizi avventati o scandalizzati. Per loro queste usanze sono passaggi fondamentali nella loro stessa vita perchè garantiscono l’equilibrio sociale dell’intera comunità. Questi riti donano, al soggetto che vi si sottopone, una nuova identità sociale e personale. Significa per loro scalare la struttura sociale del villaggio, in modo da appropriarsi di un prestigio che prima non possedevano.

Terminate le fustigazioni, ripetute più e più volte, le donne tornano a danzare e girare in tondo tra i suoni acuti delle trombette ed il tintinnio dei campanelli.

Gli uomini si appartano, sedendosi sotto alcuni alberi, per praticare un rito propiziatorio: Ukuli passa loro il “ukli boku” un piccolo bastone di legno intagliato con la punta arrotondata (un chiaro simbolo fallico), che i Maz stringono tra un fascio di rami, mentre gli anziani vi poggiano sopra quattro bracciali di metallo. Dietro ordine degli stessi anziani, i Maz sollevano di scatto verso l’alto i rami lasciando cadere in terra i bracciali. Gesto ripetuto per quattro volte, in corrispondenza dei quattro punti cardinali, in modo che la buona fortuna segua il “naala” ovunque.

Ci si sposta di nuovo, stavolta di ottocento metri, nel luogo sacro, soprannominato “Ukli Pola” e prescelto dagli avi centinaia o addirittura migliaia di anni fa: una radura dove una mandria di buoi viene tenuta sotto controllo dai Maz.

Le donne riprendono le loro danze e i loro camminamenti in tondo stavolta intorno alla mandria, con il chiaro intento di stancare e disorientare gli animali.

Nugoli di polvere si addensano nell’aria mentre il sole brucia come non mai. Sui corpi sudati delle Hamer colano burro ed argilla, donando alla pelle un effetto oleoso molto particolare.

Alcuni “padrini” scelgono tra i buoi, separandoli dalla mandria, quelli più adatti alla cerimonia e li immobilizzano, prendendoli dalle corna e dalla coda. I prescelti, in numero di sette, vengono messi in fila uno accanto all’altro ed anche se a fatica cercano di tenerli fermi ed allineati.

Le donne aumentano il ritmo delle danze e dei salti, accompagnate dai suoni di tromba sempre più acuti.

Ukuli viene “benedetto” da un anziano che, con una ciotola piena di latte cagliato, cosparge le sue mani e quelle dei Maz.

I ragazzi che superano la prova dovranno seguire una dieta rigorosa: solo carne, latte, miele e sangue, sino a quando non prenderanno moglie. Fino ad allora sarà loro vietato bere birra o altre sostanze alcoliche e mangiare il sorgo. Quando Ukuli sarà “daala”, cioè fidanzato, suo padre dovrà pagare la famiglia della ragazza con 30 buoi, 30 capre ed un kalashnikov, perchè ella possa andare in sposa al figlio.

Il “naala” (il giovane), completamente nudo e con una sottile corda vegetale incrociata attorno al petto (simbolo dell’infanzia che sta abbandonando), è pronto per cimentarsi nella prova.

I Maz danno il segnale per far partire Ukuli che, dopo una breve rincorsa, salta sul primo bue e, in equilibrio precario, balza sul dorso degli altri animali, sostenuto e sorretto dai padrini che lo incitano, sino a completare la prova, che ripeterà per quattro volte consecutive.

Al termine della cerimonia, tra la gioia degli amici e dei parenti, tutti i partecipanti escono dallo spiazzo per rientrare al villaggio. Qui i festeggiamenti continueranno per due giorni e due notti.

Ormai il sole è basso all’orizzonte e la notte avanza velocemente. Quando sarà completamente buio, alla luce fioca di qualche falò, i giovani Hamer, tra cui Ukuli, partecipano alla danza “Evangadi”, la danza dell’amore, un rito di corteggiamento dove le ragazze, abbracciate tra loro e allineate, si pongono di fronte ai ragazzi, che sono anch’essi allineati su un’altra fila. I giovani maschi, spiccando salti e avvicinandosi da un lato e dall’altro alle ragazze, battono i piedi a tempo di musica. Le giovani donne seguono ritmicamente i loro movimenti, spostandosi a destra ed a sinistra, ondeggiando con il corpo e con il capo. Ad un certo punto uno dei ragazzi si stacca dalla fila ed inizia a volteggiare al centro, avvicinandosi sorridente ad una ragazza, per poi tornare al suo posto. Ora è il turno della ragazza prescelta, che lascia la fila per avvicinarsi anche lei al ragazzo.

La festa continuerà per tutta la notte e per un’altro giorno e per un’altra notte ancora.

Ukuli avrà a disposizione trenta giorni per trovare moglie: girerà nel suo villaggio e nei villaggi vicini indossando, di lato al gonnellino, il simbolo fallico in legno chiamato “ukli boku” (segno distintivo di colui che abbia superato la prova dell’ Uklì Bulà, il salto dei tori), mostrando a tutti il suo nuovo status di “daala”, cioè di adulto.