I Wodaabe o Bororo (quest’ultimo nome dispregiativo ispirato dal bestiame, “mborooli” in lingua Fulani significa zebù, la cui traduzione vuole rappresentare in modo completamente errato questi fieri pastori nomadi contraddistinguendoli come “coloro che non si lavano e vivono nella macchia”) sono una Tribù appartenente all’Etnia Peul o Fulani, gli ultimi grandi nomadi che, ancora oggi, si spostano all’interno del grandioso Continente Africano con le loro mandrie, seguendo il ritmo delle stagioni e regolando la transumanza proprio su tali conoscenze ataviche, alla ricerca dei rari pascoli e delle rarissime pozze d’acqua da un paese all’altro: dalla Repubblica Centro Africana, al Senegal, al Niger, alla Nigeria, al Cameroun, spingendosi fino in Mali. Si fanno chiamare con orgoglio Wodaabe, il Popolo del tabù, perché nella loro cultura non esistono gerarchie di alcun tipo e non vi sono né padroni né schiavi. La loro è una società di eguali non fondata sugli effimeri beni materiali: considerano indegno per un allevatore nomade fabbricare oggetti e sono fermamente convinti che il lavoro, se non direttamente correlato all’allevamento, possa compromettere la loro libertà. Hanno conservato tradizioni, usanze, riti e valori tipici di una vita indipendente, resistendo a qualsivoglia influenza esterna ed alle lusinghe del cambiamento.
Sono un Popolo dedito alla pastorizia, allevano buoi gibbuti dalle lunghe corna (chiamati anche zebù), cammelli e capre. Sono spiriti liberi attaccati in modo viscerale al proprio bestiame con cui si identificano, a tal punto da trasporre il nome degli animali preferiti agli stessi figli. Una gran parte dei Peul si sono convertiti all’Islam ed hanno mutato le loro abitudini divenendo agricoltori ed allevatori stanziali.
Non i Wodaabe che, al contrario, hanno mantenuto intatte le antiche tradizioni, conservando la vita nomade ed uno stile spartano che li spinge a porre la bellezza e la cura della persona sul gradino più alto della loro gerarchia di valori.
Ogni bambino, sin dalla più tenera età, riceve in dote un vitellino per rinsaldare in tal modo il rapporto indissolubile che lo legherà per la vita ai propri animali. L’importanza ed il prestigio degli uomini e delle loro famiglie si fondano sul numero di capi bestiame posseduti. Vivono del ricavato delle loro mandrie, che vengono usate come moneta di scambio ed assicurano loro di che vivere: solamente in occasione di determinate ricorrenze particolarmente importanti, sacrificano un loro animale per utilizzarlo come cibo.
Le donne si occupano della mungitura, della vendita dei prodotti derivati dal latte (sotto la supervisione dei mariti) nei vari mercati, della realizzazione di oggetti artigianali di uso quotidiano, delle faccende domestiche, oltre che della cura dei figli e della tenda, mentre gli uomini si limitano a portare al pascolo gli animali.
Alla base della loro cultura millenaria e delle loro tradizioni ancestrali vi è un codice di comportamento noto come “Pulaaku”: impone indistintamente a tutti i Wodaabe le qualità della pazienza, dell’autocontrollo, della disciplina, della prudenza, della modestia, del rispetto verso gli altri (compresi i nemici), della saggezza, della previdenza, della responsabilità personale, dell’ospitalità, del coraggio e del duro lavoro. In tale ottica, al fine di responsabilizzare il bambino sin dalla tenera età, a lui viene affidata la custodia delle mandrie, in modo da metterlo alla prova: da solo, di notte, nella savana sarà costretto a vincere la paura e contrastare gli attacchi delle iene o degli sciacalli, pena la vergogna di essere additato come codardo.
La loro concezione del rapporto pastore/animale li porta a considerare, come massima aspirazione possibile, quella di camminare fieri davanti alle loro mandrie con il tipico copricapo ed il bastone, ottenendo in tal modo la soddisfazione più alta della loro esistenza.
La vita, secondo le loro credenze, si divide in tre diversi cicli di 21 anni ciascuno: il primo periodo corrisponde all’apprendistato, il secondo alla pratica, il terzo all’insegnamento. Per loro “uscire” dalla vita attiva è come morire.
Essi non si separano mai dai loro amuleti ed effettuano antichi riti religiosi animistici, derivati da culti preislamici giunti, quasi inalterati, fino a noi.
I Wodaabe non hanno sviluppato tratti somatici negroidi, possedendo evidenti ed inconfutabili lineamenti occidentali. Essi hanno insito nel loro Dna il culto della bellezza che celebrano ogni anno da tempi immemorabili al termine della stagione delle piogge, in piena savana, mediante il rito antichissimo del Gerewol. Per essere presenti e rievocare con canti, balli e riti questa cerimonia arcaica, centinaia di famiglie attraversano le aride pianure del Sahel che si estendono dal Niger, dal Cameroun e dalla Nigeria: gli uomini a piedi davanti alle mandrie, mentre le donne ed i bambini a seguire sugli asini. I nomadi affrontano questo lungo viaggio anche per uno scopo, se vogliamo, meno “nobile”: spingere le proprie mandrie verso i pascoli ricchi di sale e di pozze d’acqua nel territorio compreso tra il Villaggio di Abalak e l’Oasi di Ingal.
Si tratta di un concorso di bellezza, tutto al maschile: i giovani uomini Wodaabe, appartenenti ai vari Clan confluiti per l’occasione della Festa (si ritrovano i vecchi amici, si rinsaldano i legami di parentela, si intrecciano nuovi amori), dopo una dieta ferrea a cui si sono sottoposti nei mesi precedenti, partecipano a questo Festival sfoggiando fisici asciutti e muscolosi, elaborate acconciature arricchite dalle piume di struzzo, conchiglie cipree, monili coloratissimi, amuleti di ogni tipo, pitture facciali realizzate con la “Pura” (una polvere gialla) e ricoperte dall’argilla rossa, trucco abbondante e complesso (trascorrono diverse ore, anche sei consecutive, a ritoccare l’acconciatura ed il trucco davanti a minuscoli specchi con l’ausilio dei loro coetanei).
I giovani Wodaabe, terminata la lunga e laboriosa fase del trucco, raggiungono la radura indicata dagli anziani ed iniziano a porsi uno a fianco all’altro creando un lungo semicerchio umano. Si muovono lentamente spalla contro spalla e mano nella mano.
Il “Rumme” è la danza di benvenuto: rappresenta una sorte di saluto rivolto a tutti i Clan presenti all’evento. Al centro del semicerchio si dispongono gli anziani più in vista che li incoraggiano intonando una nenia quasi interminabile, battendo le mani, alzando al cielo il bastone tipico da pastore e aggiustando le loro acconciature o i loro monili quando necessario. Sembrano quasi dei maestri d’orchestra che incoraggiano i giovani a dare il meglio di sé.
Segue la cerimonia “Yake” (il cui nome si può tradurre in “compagni della stessa classe d’età”), i partecipanti alla gara di bellezza maschile si esibiscono cantando, danzando e mettendo in risalto il volto mediante una mimica facciale molto particolare: tengono gli occhi forzatamente spalancati per farli sembrare più grandi, incrociano le pupille per simulare lo strabismo (considerato dalle ragazze affascinante), sorridono in modo ostentato per mettere in risalto i denti bianchissimi. Il pubblico presente (scrupolosamente separato tra gli uomini e le donne, a cui sono affidati i bambini) li segue entusiasta e gioioso: in particolare le giovane ragazze ancora nubili, anch’esse elegantissime, adornate da gri gri (amuleti) e monili ricercati, composte e silenziose, osservano con estrema attenzione e spirito critico i ragazzi schierati durante le loro “performances”.
Dopo una breve pausa, visto il caldo soffocante e la polvere che avvolge i partecipanti, si inizia la danza di guerra denominata “Gerewol” (che dà il nome anche al Festival): i danzatori si presentano in un unico fronte compatto avanzando ed indietreggiando insieme con passi leggeri e ritmati, vi è un gran volteggiare di asce e le pesanti cavigliere (unico strumento musicale oltre ai tamburi) scandiscono i movimenti della danza che, con il passare delle ore, diviene sempre più frenetica. A gruppi di quattro o cinque partecipanti, ad un certo punto, si staccano dal fronte compatto e avanzano verso il pubblico mimando scene di guerra, roteando le asce ed i bastoni da mandriano. Al termine di questa danza di guerra, i ragazzi bevono una bevanda a base di latte fermentato che fornisce loro l’energia necessaria per ballare le numerose ore previste dal Festival, anche se potrebbero accusare effetti allucinogeni. Anche prima, come durante le diverse esibizioni, essi bevono anche del thè infuso con la corteccia fermentata di un particolare albero che li farebbe danzare instancabilmente.
Riprendono i festeggiamenti ripetendo la danza “Yake”, in cui i giovani Wodaabe (i volti accuratamente truccati, le labbra evidenziate con la cenere, i grandi copricapo ornati con le piume di struzzo, le vesti finemente ricamate e adornate di amuleti, specchietti, collane) fanno sfoggio di tutto il loro fascino mentre le ragazze li studiano con estremo interesse e con la massima attenzione. Al termine della danza, le ragazze indicate dagli anziani per presiedere alla scelta ufficiale dei vincitori (che, in precedenza, si erano anch’esse truccate e vestite a festa poco distante dalla radura dove si svolgeva il Festival con l’ausilio dei parenti stretti), accompagnate dalle rispettive mamme che le affidano ai decani, si avvicinano ai candidati con passi lenti e regali, a mani giunte, inginocchiandosi per un ultimo sguardo indagatore, ed alla fine procedere con decisione ed eleganza (sempre tenendo lo sguardo insistentemente rivolto a terra) verso il prescelto, sfiorando la sua mano come gesto indiscutibile di approvazione.
I due (la donna che ha effettuato la scelta e l’uomo da lei preferito) avranno la possibilità di appartarsi durante la notte nella boscaglia della savana al chiarore della luna per una “prova” prematrimoniale d’amore tutta al femminile, nel senso che sarà la ragazza a decidere se l’uomo che ha individuato come migliore possa essere considerato “valido” o meno per il matrimonio. Naturalmente la scelta del proprio partner potrà essere effettuata anche da tutte le altre ragazze nubili presenti al Festival in modo meno appariscente ed ufficiale: per entrambi i sessi vi è una libertà impensabile nel mondo occidentale.
Durante la notte le danze (esclusivamente di uomini) continuano nel buio più completo per ore ed ore: il silenzio della savana riecheggia del suono dei tamburi, dei canti e delle invocazioni dei giovani Wodaabe.
Il giovane prescelto, superata la prova più importante della notte d’amore, porterà una zucca piena di latte alla famiglia della futura sposa, quale gesto di buon augurio per la futura unione.
Le celebrazioni del Gerewol durano da una settimana a 10 giorni e si concludono con l’esaltante corsa dei dromedari.
Coloro che hanno la fortuna di assistere e documentare questa coloratissima ed originale Festa, vengono proiettati come per un incredibile miracolo in un’epoca arcaica, vivono come testimoni un evento che si perde nella notte dei tempi, che conserva intatto un valore etnoantropologico di immensa importanza, che risulta scevro da contaminazioni culturali esterne e che restituisce tutto il valore simbolico a questa Terra meravigliosa oggi conosciuta col nome di Niger ed a questo Popolo Wodaabe, fiero e indomito che custodisce le proprie tradizioni ancestrali con tanta passione.

Fabrizio Loiacono Photographer