Raggiungo l’Aquila nel primo pomeriggio di una giornata di primavera.

Mi reco subito nella zona in cui sono ancora evidenti i segni nefasti del terribile terremoto che ha scosso questa terra e gli animi di coloro che sono sopravvissuti.

Si sentono i profumi dei primi gelsomini in fiore, gli uccellini che cantano.

Se non fosse per le mura dilaniate dalle scosse, per le pareti crollate, per i mobili impolverati ancora presenti nelle stanze aperte dal sisma, sembrerebbe di essere in una qualsiasi cittadina fiorente del verdeggiante Abruzzo.

E invece sono all’Aquila, una città a tutt’oggi segnata indelebilmente dai movimenti tellurici del 6 aprile 2009.

Sono trascorsi sei lunghi anni e la presenza del disastro si respira ancora nell’aria fresca di questo pomeriggio.

Avvicinandomi ai palazzi “bombardati” dal terremoto, mi sembra ancora di poter udire le grida degli abitanti svegliati di soprassalto dalla forza delle scosse. Sento il battito dei loro cuori che quasi cedono di schianto alla paura che paralizza, la paura che uccide.

Mi focalizzo sui particolari. Una crepa…una parete dilaniata dove, per un capriccio del caso, tre mattoni sono rimasti sino ai nostri giorni in bilico perfetto nel momento stesso che il terremoto li ha con forza staccati dagli altri.

Sono concentrato.

Non intendo pensare ad altro se non a quello che realmente è successo quel lontano 6 aprile. Quello che testimoniano le rovine che sto fotografando.

Mi sposto e raggiungo il Convitto dove dormivano gli studenti universitari.

E’ un luogo di una tristezza e di un dolore talmente intensi da far girare la testa. Mi fermo appoggiandomi alle transenne che delimitano l’edificio e respiro profondamente…non è facile per me fotografare questo luogo dove la morte aleggia così distintamente.

Vi sono le immagini dei ragazzi schiacciati dalla forza omicida della Madre Terra, con sciarpe, cappellini, piccoli ricordi condivisi da chi ora non c’è più.

E lo stomaco mi si contrae.

Se potessi fotografarmi si vedrebbe la smorfia che ho sulle labbra. Una smorfia di rispetto e dolore per queste giovani vite prematuramente scomparse.

A fatica mi allontano da questo luogo così penoso…

Raggiungo il centro storico della città.

Ovunque cantieri con gru, impalcature, polvere.

Si percepisce la voglia di questa città di tornare prima possibile alla normalità, anche se non vi è traccia  alcuna di uomini al lavoro nel momento in cui scatto. E la scelta di fotografare questi luoghi senza inserire la figura umana, è stata alla base dell’intero lavoro che ho svolto.

Arrivo nella piazza centrale.

Lì un chioschetto ambulante vende palloncini coloratissimi gonfiati ad elio per i bambini…un messaggio di speranza per questa città e per i bimbi che saranno i futuri protagonisti della rinascita del capoluogo abruzzese.

 

Fabrizio Loiacono Photographer.