L’India è il Paese in cui privilegi e povertà, non violenza e fanatismo, potere e rassegnazione, tradizioni antichissime e tecnologie all’avanguardia, ruralità contadina e scoperte industriali, sfrenata opulenza ed assoluta miseria, cruda realtà e galoppante fantasia, occulti misteri e spiazzanti chiarezze, ne fanno un continente unico, irripetibile.
Durante il mio primo viaggio effettuato nel febbraio 2009, ho tentato di riportare con fedeltà obiettiva, durante il mio fotoreportage in Rajasthan, la realtà vissuta di un’India senza veli o stereotipi.
Le immagini dell’unico tempio esistente al mondo dedicato ai topi, il Karni Mata Temple di Deshnok, nei pressi di Bikaner, del magico Taj Mahal (accanto al fiume Yamuna), del deserto vicino a Jaisalmer, dove vivono le Etnie nomadi Bisnoi, Bhil, Mina, del fiabesco Palazzo del Maharaja di Udaipur, considerata la “Venezia” d’Oriente, del maestoso forte (scolpito in pietra calcarea dorata) di Jaisalmer, la cosiddetta Città d’oro, del lago sacro di Pushkar (che la leggenda racconta sia stato creato nel momento in cui un fiore di loto cadde dalla mano di Brahma), dello splendore di Jaipur, con i suoi edifici di colore rosa, del mausoleo di Dargah, nella città di Ajmer, uno dei luoghi di pellegrinaggio musulmani più importanti di tutta l’India, dove i pellegrini legano alle ringhiere appunti su carta e nastrini sacri come segno di ringraziamento o di supplica nei confronti dello spirito del venerato, della cosiddetta “Città blu”, Jodhpur, con le sue stradine tortuose circondate da case colorate di azzurro, sono solo alcune delle meraviglie che ho ammirato in questa terra stupenda.
Ho scoperto un’India dove il lavoro artigianale impegna uomini, ma soprattutto donne, in particolare nei lavori più pesanti , in una fatica senza tempo, senza stagioni, senza diritti. Una fatica svolta in ogni condizione, nei grandi mercati come negli angoli di strada, nelle campagne più remote come nelle città più moderne.
Un’India in cui le vacche sacre, da sempre venerate, rispettate e trattate con amorevoli cure, vagano tranquille sulle strade, tra il traffico caotico di biciclette, auto, camion e motociclette strombazzanti.
Un’India in cui il fiore di loto si creda corrisponda al centro dell’universo ed è talmente venerato da essere divenuto il fiore nazionale del Paese.
Un’India in cui i colori dei turbanti (safa, paag o pagri), dei sari, delle gonne scintillanti (lehanga o ghaghara), dei veli per il capo (odni o dupatta), simboleggiano le restrizioni esistenti nella società indiana.
Il turbante, a seconda del colore, può indicare l’appartenenza ad una casta, ad una particolare religione o può essere indossato per un’occasione specifica (cerimonia, ricorrenza, ecc.).
Il colore zafferano è usato dai Rajput ed è legato alla cavalleria, il nero dai Nomadi, il rosa dai Brahmini, il marrone dai Dalit; i turbanti multicolori vengono utilizzati per le festività, in particolare quelli bianchi, blu, grigi o neri vengono usati dagli Hindu per comunicare tristezza.
Le donne sposate o nubili portano indosso colori vivaci, quali rosa, rosso,giallo: una combinazione particolare di rosso e giallo può essere utilizzata solo dalle donne che abbiano partorito figli maschi. Le donne Hindu sposate, quindi di “proprietà” del marito, si riconoscono dai bracciali (chuda), dagli anelli alle dita dei piedi (bichiya) e da un colore vermiglio nella scriminatura dei capelli.
Alcune sfumature di blu, di verde e di bianco, sono considerate colori da lutto, utilizzate dalle vedove Hindu.
Un’India dove lo spirito religioso pregna ogni azione e convive con il progresso tecnologico delle aziende.
Un’India in cui l’hinduismo, principale religione del paese, convive con il buddismo, con il giainismo, con lo zoroastrismo, con la religione musulmana, con il cristianesimo, con le religioni tribali animiste.
Un’India in cui vivono oltre un miliardo di abitanti, in una miscellanea composita di etnie.
Un’India in cui esiste una casta di “invisibili”, gli Hijra, eunuchi che si travestono da donne, alcuni sono gay, altri ermafroditi: dato che la cultura indiana non accetta l’omosessualità, loro vivono ai margini della società, in una specie di limbo indefinito.
Un’India in cui occorre arrendersi all’ignoto, per lasciarsi affascinare dai suoi misteri nascosti ad ogni angolo di strada.
Le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone” (Jhon Steinbeck).