Racalmuto, piccolo paese denominato dagli Arabi “Rahal Mant” (villaggio morto, per una tremenda epidemia di peste che lo colpì durante il loro dominio), sorge tra le province di Agrigento e Caltanissetta, in Sicilia.

A circa quattro chilometri dal centro abitato si trovano le miniere di sale di proprietà dell’Italkali.

Oltre cinque milioni di anni fa il mare ricopriva completamente l’intera zona. Quando iniziò a prosciugarsi, il sale si depositò in enormi quantità, permettendo l’estrazione del minerale sino ai nostri giorni.

Si dice che questo giacimento, insieme a quello di Realmonte e Petralia, località limitrofe, sia il terzo più importante al mondo.

Le gallerie si spingono sino ad una profondità di 200 metri sotto il piano stradale, su dodici livelli disposti a ferro di cavallo.

Scendere in miniera, lasciare dietro di sé la luce del giorno, è un’esperienza primordiale, sembra di entrare in una dimensione diversa, sconosciuta. La sensazione di essere entrato in un mondo ovattato, lascia ben presto il posto allo stupore. Le gallerie risultano ampie, avvolgenti. Evidenti i segni, gli indizi e le impronte del lavoro dell’uomo, che creano decorazioni degne di una cattedrale barocca.

La miniera rappresenta il ventre,  è come percorrere l’interno delle viscere del Pianeta Terra. Attraversando la rete di cunicoli,  il tempo sembra fermarsi, il buio e le ombre divengono i custodi di questo regno a cui si contrappongono, illuminati dalle macchine escavatrici e dalla fresa, i riflessi bianchi del sale. La luce, all’improvviso si accende, rapace, violenta, sembra quasi volermi accecare. E’ un paesaggio lunare, dove i potenti fari dei macchinari, completamente coperti di polvere bianca, appaiono come occhi di creature extraterrestri che mi scrutano interrogativi.

La raffineria. Si deve uscire di nuovo all’aria aperta, al sole accecante e caldo di quest’angolo di Sicilia. La luce qui è vivida, quasi abbagliante, depositi simili a “zucchero a velo” soffice, candido e quasi impalpabile ricoprono ogni dove, macchine, tubi, pavimenti, operai.

Fatto salvo per il rumore dei macchinari in funzione, non si sente altro suono.

Ed anche qui sembra di essere in un’altro mondo. Ovattato e parzialmente silente.

Visito i locali dove soggiornano gli operai durante le pause, la sala pranzo, gli spogliatoi, dove, tra figure di donne nude e un’apparente ordine rigidamente applicato, si percepisce la loro presenza.

Sono loro a continuare la tradizione dei padri e dei nonni, perchè il “mestiere” di minatore, molto spesso, si tramanda da padre in figlio. Anche se la tecnologia, ora, ha migliorato moltissimo le condizioni di lavoro, rispetto a qualche decina di anni indietro.

Mi appaiono sereni, orgogliosi del loro lavoro, sorridenti, disponibili.

Pranzo con loro seduto nella mensa comune, coccolato dalla bravissima cuoca vestita dall’azzurro dei suoi occhi, simili al mare cristallino di questa Sicilia così profondamente sincera, semplice, accogliente.

Quando mi congedo da loro, ringraziandoli per la squisita ospitalità e per la fattiva collaborazione, il pensiero corre alla squadra che è di turno in miniera, tra le gallerie parzialmente illuminate, nel Teatro sotterraneo, dove si respira il soffio della nostra Madre Terra.  E allora sorrido, compiaciuto.

Fabrizio Loiacono Photographer.