oromo-11Tra le “Montagne della Luna”, nel sud dell’Etiopia, appartata sulle alture a ovest del corso inferiore del fiume Omo, vive la tribù dei Surma, una delle etnie meno conosciute e tra le più interessanti dell’intera Africa.

Nella terra dei Surma (o Suri, come spesso si chiamano tra di loro), si spinse anche l’esploratore Bottego, nell’estate del 1896, entrando in contatto con queste popolazioni primitive che hanno conservato sino ad oggi intatti, in maniera straordinaria, le proprie tradizioni e il loro stile di vita.

Questo grazie al totale isolamento geografico in cui hanno sempre vissuto (sino a pochi anni fa non vi erano neppure piste sterrate sicure) ed all’ostilità tradizionalmente intrattenuta con le tribù limitrofe.

Giunti in Etiopia dalle pianure sudanesi, i Surma, pastori, agricoltori e spesso temuti razziatori di bestiame, si sono insediati su queste colline, lontano da strade o piste segnate sulle mappe, ed i loro villaggi sono per la maggior parte raggiungibili solamente a piedi.

La necessità di sopravvivere in un territorio così aspro, dove la ricerca di pascoli per il bestiame è essenziale per la  vita stessa dell’intera comunità, ha comportato che queste piccole tribù siano rimaste intimamente legate alla propria identità di clan, impedendo fusioni culturali con le vicine etnie dei Nyangatom (o Bume), e dei Mursi, quest’ultimi stanziati nella Bassa Valle dell’Omo.

Alti e snelli, con caratteri tipici dei popoli nilotici, i Surma presentano molte similitudini con i Nuba del vicino Sudan.

Insieme ad i Mursi, fanno parte dello sparuto gruppo di etnie in cui le donne sposate portano, inserito nel labbro inferiore o superiore, precedentemente forato, il piattello labiale di terracotta, spesso di dimensioni impressionanti, tondo presso i Mursi, trapezoidale o tondo presso i Surma.

Gli uomini sono completamente nudi o portano una coperta o un tessuto colorato annodato su una spalla a mo’ di tunica.

Sino a due anni fa i Surma, come i Mursi, non indossavano alcun vestito: il governo etiope ha imposto loro di coprire il corpo nudo e, anche se a malincuore, hanno acconsentito, vestendosi con stoffe o coperte nei colori viola o rosso che lasciano scoperta una parte del torace.

Amano dipingersi il corpo, che per loro è una vera e propria arte, con maestria e raffinatezza invidiabili, utilizzando l’argilla che spalmano reciprocamente sui corpi realizzando disegni geometrici, righe e motivi decorativi tra i più fantasiosi.

Il primo villaggio Surma che incontriamo si chiama Tulgit.

Qui i bambini ci vengono incontro festanti, apostrofandoci con il saluto Surma “acelì” (ciao), insieme alle donne che ci osservano curiose e divertite.

Molti bambini hanno il ventre gonfio, presentano  ferite ed escoriazioni in diverse parti del corpo, scabbia e malattie respiratorie.

Nella vallata formata dal fiume Kibish, che guadiamo non senza qualche apprensione con la jeep, vicino all’omonimo villaggio, incontriamo un’altra piccola tribù: qui avremo modo di assistere anche al combattimento rituale tra i giovani Surma che prende il nome di Donga.

A piedi, dopo un tragitto di oltre sei chilometri sotto un sole cocente, raggiungiamo il villaggio Bargowa, dove assisteremo, tra l’altro, alla cerimonia del Pasto del sangue.

Sempre a piedi ci spostiamo nel villaggio vicino, Borgotà, attraversando un sentiero strettissimo circondato da vegetazione fittissima che crea un muro verde alto oltre due metri.

 

Pasto del sangue

Il pasto del sangue è un rito tradizionale dei Surma che praticano giornalmente: alcuni giovani immobilizzano un bue od una mucca, mentre un ragazzo stringe un cordone intorno al collo dell’animale in modo da mettere in evidenza le vene ed un altro, armato di arco e freccia, presa la mira, scaglia con precisione il dardo praticando un piccolo foro nella giugulare.

Una volta estratta la freccia il sangue, che esce a zampilli, verrà immediatamente raccolto in una zucca svuotata.

Viene prelevato solo quello necessario a nutrire i presenti, per non indebolire inutilmente il bestiame, e non ne verrà sprecata neppure una goccia.

Con un impasto di sterco e fango viene tamponata la ferita dell’animale perché smetta di sanguinare e poi viene liberato.

I ragazzi si accovacciano in cerchio, passandosi la ciotola, dopo averne bevuto a turno il contenuto. Spesso sputano e arricciano il naso, probabilmente per il sapore aspro del sangue.

Oltre ad integrare la dieta quotidiana, si crede che il pasto del sangue renda più forti i giovani Surma.

Alla base di questo rito vi è un profondo rispetto nei confronti dell’animale, da parte dell’intera tribù, che lo considera un’importante fonte di ricchezza e pertanto non dovrà per alcuna ragione essere ucciso.

 

DONGA – Il combattimento rituale con i bastoni tra i giovani Surma

Il Donga, il combattimento con bastoni lunghi oltre due metri dalla punta arrotondata (un chiaro riferimento al simbolo fallico), il cui legno, molto resistente, è ricavato da un albero che  si trova nella foresta di nome “Koso”, è tradizionalmente utilizzato dai Mursi e dai Surma quale competizione tra i giovani dei villaggi confinanti, che si sfidano in questa lotta senza esclusione di colpi (l’unico limite da rispettare è non uccidere l’avversario).

E’ un rito violento, in cui i colpi sferzati tra i contendenti sono drammaticamente reali e feroci.

Spesso il sangue scorre copioso e le cicatrici restano sul corpo dei lottatori a testimonianza del loro coraggio.

Da qualche anno il Governo Etiope, anche a seguito di alcuni casi di morti accidentali tra i combattenti del Donga, ha vietato questo tipo di lotta, ma questa tradizione antichissima è dura a morire e la polizia locale non sempre riesce a sorvegliare un territorio così vasto in cui, ormai, questa lotta viene organizzata segretamente tra i giovani, senza preavviso e con un numero contenuto di contendenti.

E’ un torneo in cui i duellanti mettono alla prova la loro forza, abilità, destrezza, velocità, astuzia, coraggio.

Siamo nel villaggio di Kibish, nel Sud Ovest dell’Etiopia, nel territorio dell’etnia Surma.

Poco distante, raggiungiamo con la jeep il luogo prescelto dagli anziani, una radura dove, a poca distanza, scorre un ruscello. Scendiamo dalla vettura e ci guardiamo intorno, ma ancora non c’è nessuno. Attendiamo pazientemente.

Dopo circa un quarto d’ora, dai sentieri circostanti spuntano a piccoli gruppi i partecipanti, tutti armati del loro bastone,  avvicinandosi rapidamente,  intonano i loro canti e mimano la lotta a passi di danza.

Giunti nello spiazzo, precedentemente consacrato dallo stregone del villaggio, posano in terra i bastoni, tolgono le coperte ed i teli con cui avevano ricoperto i loro corpi e, nudi, si dirigono, sempre cantando e danzando, nel vicino ruscello dove si lavano e si cospargono il  corpo con l’argilla ed il fango, creando vicendevolmente disegni astratti sulla loro pelle.

Escono dall’acqua sempre cantando e danzando, tornando indietro nella radura per prepararsi alla competizione.

L’anziano ( “shimaghilè”) dà il via ai giochi battendo sul terreno tre volte alcuni ramoscelli tagliati da una pianta di nome “fombo”.

Non vi sono regole precise, pertanto tutti colpi sono consentiti e vince chi riesce ad atterrare l’avversario. Il vincitore viene sfidato da chiunque non abbia ancora partecipato al torneo.

Per scelta, non ho documentato i momenti più cruenti del combattimento, dove il sangue usciva copioso dalle ferite dei lottatori.

Il gioco verrà interrotto dall’anziano quando rimane un solo giovane sullo spiazzo, il più forte e valoroso, sempre battendo tre volte in terra i ramoscelli di “fombo”.

Chi vince il combattimento sarà rispettato e temuto da tutti, sarà ammirato dalle giovani donne dei villaggi circostanti, sarà considerato il più potente e coraggioso, salendo ai massimi livelli la scala di valori del clan di appartenenza.