Nella vita dei nepalesi vi è un elemento che può considerarsi fondamentale per la loro esistenza: il culto religioso. I diversi riti scandiscono le ore di ogni giornata e rinsaldano secoli di tradizioni, mentre le influenze tibetane ed indiane confluiscono nella sfera religiosa del Nepal senza soluzione di continuità. Un Paese in cui hinduismo e buddhismo vantano templi e Divinità in comune: espressione concreta di una coesistenza tollerante, pacifica e senza dubbio alcuno, affascinante.
La religione Buddhista non dovrebbe considerarsi una “religione” nel senso stretto del termine perché essa non fonda la sua origine ed il culto che ne deriva su una o più Divinità, bensì su un sistema che possiamo definire filosofico ed un rigido codice morale.
Il Buddha (o il Risvegliato) nacque a Lumbini, in Nepal, oltre 25 secoli fa: egli era un principe che decise di rinunciare ai privilegi della sua vita aristocratica per raggiungere l’illuminazione spirituale attraverso il rispetto della regola della via di mezzo (cioè della moderazione in tutte le cose) da lui stessa concepita. Insegnava che l’intera vita terrena è contrassegnata dalla sofferenza, che trae origine dalle nostre ambizioni, dai nostri desideri e dal grado di rilevanza che noi attribuiamo ad essi.
Esortando i suoi discepoli ad affidarsi ed a seguire il Nobile ottuplice sentiero (i cui elementi sono: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta sussistenza, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione) intendeva offrire loro un percorso di liberazione dalla sofferenza in cui i desideri verranno sopiti e si potrà raggiungere il “Nirvana” (lo stato che prevede la libertà da ogni delusione ed illusione), identificando in tal modo le varie fasi della vita perfetta o tendente alla perfezione.
Tale percorso verso il risveglio spirituale contempla un necessario ciclo di rinascite del singolo individuo sino a quando non si raggiunge il Nirvana: solo allora non risulta più necessario reincarnarsi nel mondo della sofferenza terrena. Il Karma è la guida che accompagna gli umani attraverso questo ciclo di rinascite, cioè una sorta di legge basata sul concetto di causa ed effetto: tutte le azioni compiute durante la vita determineranno il tipo di esistenza che si dovrà affrontare nella vita successiva. Pertanto l’individuo è l’unico artefice del proprio destino.
L’Hinduismo fu originato 3.500 anni fa tra le tribù dell’India centrale ed è una religione che venera più Divinità: i suoi seguaci credono esista un ciclo di vita, morte e rinascita, il cui scopo è raggiungere il “Moksha”, cioè la liberazione dal ciclo stesso. Anche per loro il Karma (la legge esistenziale di causa – effetto), come per i Buddhisti, è decisivo in questo percorso verso il Moksha finale.
L’esistenza di un fedele hindu in Nepal è scandita da 16 riti principali: dal primo taglio di capelli del bambino, alla sua prima ciotola di riso, dai riti nuziali e funebri al sistema delle caste con le sue rigide regole, dalle abluzioni rituali alla purificazione, dalla puja al sacrificio rituale.
I templi hindu rappresentano il punto di congiunzione tra il mondo terreno e quello spirituale: i devoti vi si recano per mostrare devozione, compiere offerte votive, pregare per una persona cara o per ottenere un “Darshan” (la possibilità di vedere od essere visto da una determinata Divinità).
L’immagine della Divinità ospitata nel tempio riceve dal sacerdote un trattamento simile a quello di un re: viene risvegliata delicatamente, lavata, vestita, nutrita e riposta a riposare. I devoti, invece, recano in dono offerte, dalle noci di cocco al riso, a ghirlande di fiori, ad incensi e polvere rossa di cinabro (solfuro di mercurio).
Il termine sanscrito “Sadhus” viene utilizzato per nominare i santoni o baba indiani, presenti anche in Nepal. Questa parola ha significati diversi: uomo onesto, buono, santo, saggio adorato come un Dio, puro, rispettabile, virtuoso, colui che conduce alla meta.
Essi sono asceti hinduisti che, per scelta, abbandonano la famiglia d’origine, i beni materiali, rinunciano ai piaceri del sesso, vivono di elemosina o dei doni dei devoti, dedicandosi alla ricerca di una elevazione spirituale. La loro è un’esistenza basata sulla rinuncia alle passioni terrene nominata “Moksha” che ha, come obiettivo finale, la liberazione da “Maya” (l’illusione terrena) e di conseguenza la fine del ciclo delle reincarnazioni (“Samsara”): in ultima analisi questo intento è volto a fermare il ciclo delle sofferenze terrene conseguendo la fusione nella Coscienza Cosmica.
I Sadhus per facilitare questo processo scelgono una vita di rinuncia e di santità. Si attengono a cinque voti: “Ahimsa” (la non violenza), “Sayta” (la verità), “Asteya” (l’impegno a non rubare), “Brahmacharya” (astinenza dal sesso e dai piaceri sensuali), “Aparigraha” (impegno a non possedere nulla).
Praticano forme di ascesi e di meditazione, spesso solitaria, altre volte in gruppo.
Alcuni pregano e cantano a voce alta, altri si sottopongono a mortificazioni estreme, nella speranza di raggiungere più rapidamente lo stato di liberazione (si fermano, ad esempio, in una posizione sino ad atrofizzare gli arti, oppure si sdraiano o restano seduti per anni, smettono anche di parlare).
Il loro tempo è scandito dalla recitazione dei sacri mantra, dalla ricerca dell’illuminazione, dalla pratica dello yoga rituale e dal controllo del respiro.
Alcune comunità di Sadhus seguono regole per la raccolta delle elemosine, imponendosi di continuare a spostarsi di città in città per non infastidire eccessivamente i residenti.
Per gli uomini spesso la scelta della rinuncia avviene in età giovanile, mentre per le donne questo percorso viene intrapreso a seguito dello stato di vedovanza (esse prendono il nome di “Sadvi” o “Aryka”).

Fabrizio Loiacono Photographer